Chi, come me, ha avuto il privilegio di conoscere la produzione poetica di Anna Maria Bonfiglio fin dalla prima pubblicazione e non tutta in in sorso ma via via col passare degli anni, col passare del tempo nel continuum suo proprio d’albe e crepuscoli, di morti e rinascite quotidiane, sa, intensamente sa quanto la poesia di Anna Maria sia magnificamente maturata nel suo ininterrotto irraggiarsi d’un Animus fortemente lirico, unitamente alla compostezza d’un sentire duro e forte manifestato in una consolidata e personalissima espressione poetica.
La lettura dell’ultimo volume di versi “Liturgia dei giorni”, edito con i tipi di Prometheus, è immersione in un regno intimo che si fa scaturigine di profonde e feconde forze riflessive per una teofania esclusivamente umana, rigorosamente terrigena nel suo essenziale essere correlazione di arte-vita.

Da attenzionare l’analitico testo introduttivo di Francesco Solitario, snodato intorno al fulcro del segno scritturale “liturgia”, di cui ci porge le significanze magmatiche e vitali.
Nelle tre sezioni in cui è suddiviso il volume, “Spartenze” “A Palermo nessuno” “Oracoli”, è portante il movimento temporale nelle orizzontali articolazioni lineari. Un movimento non certamente indolore: la “spartenza”, ovvero il distacco, cioè non un semplice allontanamento ma una separazione, è visibile in sfaccettature liriche non sottaciute ma sommessamente pronunciate; spartenza che è ed ha la crudità degli istanti che non possono essere annullati o sospesi e che soccombono, ineluttabilmente, in coordinate non più prensili, non più conoscitive e vissute e vivibili. In “Notte dell’ascensione” leggiamo:
“Io che non ho più rose a benedire
a macerare metterò le spine” (pag. 36).
Nella sezione dedicata alla tantoamata città di Palermo, il tempo si mostra in carnalità di spazio. Qui si affaccia e si riconosce l’esigenza di un “momento” superiore, dal sentore non religioso, cultuale, ma laico, intimamente spirituale che abbia il miracolo di un respiro non di separazione ma di coesione:
“Sappiamo scansare le tagliole
anche con gli occhi in alto
verso il cielo” (n. 5, pag. 43).
Si presume che in “Oracoli” l’anelito metafisico, le interrogazioni esistenziali trovino indicazioni e risposte. Così non è: il cielo notturno e stellare non propone orientamenti, non è che specchio di un’umanità confusa e dolente; stelle simili alle ombre platoniche danzanti sul muro.
“...oracoli ammutiti
alle nostre richieste” (pag. 59). E ancora:
“…io guardo nello specchio
e leggo vene di malinconia” (pag. 61).
In questo itinerario di macerazione, di temporalità lacerata ci chiediamo: c’è, può esserci un concreto status salvifico che si riveli forza per una positiva avventura umana terrigena? C’è per Anna Maria Bonfiglio?
Le due ultime composizioni del volume sanno e possono essere risposta.
In “Liturgia dei giorni” (pag. 75) la Bonfiglio rende visibile l’evocazione alla luce,
“...ora che abbisognano più fiaccole
a diradare le ombre...”.
Tutto può essere soppresso tranne che l’Amore: ne è sufficiente un barlume perché in se stesso, non misurabile, ha la potestà del salto: così è che si fa incendio. E si fa Poesia che è
“cura e conforto al male della vita” (pag. 76).
Poesia è “divinità taumaturga”, capacità di restituire e far percepire i significati del vivere, le suggestioni necessarie per ricostruire trame di un rinnovato percorso, momento dopo momento, perenne presenza. Utilizzabile. Visibile. Beneaugurante versi di poematiche atmosfere dedicate alla gioia.
Ester Monachino